CAPPUCCINO SENZA WI FI
Sono seduto davanti a un cappuccino in un café, e ho scelto il posto più lontano possibile da tutti gli altri. Perché?
Mi ha portato qui Google cercando gli Internet Cafe più vicini, ho il mio laptop con me e vorrei dare un'occhiata alle offerte di lavoro. Così sono entrato e ho ordinato un cappuccino chiedendo al barista: “So che è una domanda stupida, ma avete il WIFI?”
È chiaro che abbiano il WIFI, d'altronde è un Internet Cafe, pensavo tra me e me, pronto ad annotare username e password. “Mi dispiace, no,” mi ha risposto il barista, lasciandomi completamente interdetto, con un progetto andato completamente a monte, e con un cappuccino che avevo ordinato solo per potermi sedere a un tavolo e cominciare la mia ricerca. Un cappuccino che adesso sembrava enorme, in una tazza enorme, pagato troppo.
Un cappuccino che somigliava in tutto e per tutto ad un errore.
Comunque, ormai il danno era fatto e così con il mio errore in mano mi sono diretto a cercare un tavolo.
In quello di fronte a me c'era un'attraente ragazza asiatica, con accanto un altro posto libero e uno spazio sul divanetto a muro dove era seduta, sufficiente ad ospitare la mia ingombrante persona: avrei potuto sedermi lì, ma proprio mentre mi reco a riporre il mio laptop sul tavolo, una coppia si alza dal tavolino all'angolo opposto, isolato e lontano da tutto e tutti; il mio cervello neanche ci pensa, quel posto sarà mio. E adesso mentre sorseggio questo cappuccino over size che neanche volevo, senza internet, mi chiedo perché ho deciso di nascondermi e sedermi lontano da tutti,
Perché sentiamo questo bisogno di isolarci?
E allora, visto che per aprire Word non serve il WIFI, ho cominciato a scrivere...
Quando siamo nella metro non ci guardiamo mai negli occhi, anzi, quando per caso incrociamo lo sguardo di qualcun altro lo distogliamo immediatamente e ritorniamo alle nostre occupazioni, che di solito si riducono al fissare lo schermo di un telefono cercando qualcosa che non sappiamo nemmeno che cosa sia. Eppure, se tutti alzassimo lo guari scopriremmo che intorno a noi c'è un mondo, un mondo di persone come noi, uguali a noi ma allo stesso tempo così diverse. E invece no, lo sguardo di qualcun altro ci pesa troppo, non resistiamo, non riusciamo a reggerlo; se siamo noi a fissare qualcun altro e la persona lo nota è come se ci sentissimo scoperti, come se avessimo violato uno spazio, una “proprietà privata”, e allora cerchiamo goffamente di simulare di essere impegnati a fare qualcos'altro. E la prima via di fuga qual è? Esatto, proprio lui, il nostro sacro smartphone. Se invece siamo noi a sentirci osservati, il meccanismo accade esattamente al contrario, ci sentiamo violati nell'intimo, sentendoci improvvisamente senza vestiti, nudi davanti a... una persona che ci sta semplicemente guardando.
A cosa ci servono allora gli occhi se non a guardare il mondo che ci circonda?
Forse è questa consapevolezza acquisita che mi ha portato a cominciare a fare un divertentissimo gioco quando mi trovo sulla metro: provare a non usare il telefono e osservare il variopinto microcosmo della U-Bahn berlinese. Al gioco ho successivamente aggiunto un piccolo side project: guardare dopo quanto tempo tirano fuori il telefono le persone che entrano nel vagone. Non credo di sorprendere nessuno dicendo che la media è decisamente sotto i 5 secondi, e questo escludendo tutti quelli che entrano già col telefono in mano.
Piccolo excursus: tempo fa ho avuto il mio periodo degli “eventi su Facebook”: stavo con una ragazza con la quale mi sentivo sempre alla prova, per quello avevo iniziato a cercare eventi tutti i giorni, per trovare sempre qualcosa da proporle e farle vedere che “ero l'uomo che sapeva sempre cosa fare”. Questa premessa solo per dire che anche quando mi lasciai con quella ragazza mi rimase l'abitudine di guardare gli eventi di Facebook, e durante una mia ricerca trovai “Eye Contact Experience”. Se qualcuno si è chiesto cosa c'entrasse la mia storia narcisistica con gli aneddoti in metro ecco il collegamento.
L'"Eye Contact Experience" e niente altro che la traduzione letterale dall'inglese, ovvero un'esperienza di contatto visivo. Mi ricordo la prima volta che ci andai: entrai in quello che doveva essere uno studio di yoga, mi fecero togliere le scarpe ed entrare in una grande sala dove una cinquantina di persone si dividevano in tre macro gruppi: il primo composto da quelli che sedevano in coppia, su cuscini da meditazione, uno davanti all'altro, e si fissavano; il secondo quelli seduti da soli che aspettavano un “compagno” o una “compagna”; il terzo gruppo invece era composto da quelli in piedi, fuori dall'area principale, che probabilmente si prendevano una pausa.
Devo ammetterlo, il mio primo input era quello di cercare una bella ragazza e sedermi davanti a lei: da persona di sesso maschile media ovviamente associavo automaticamente il contatto visivo con un ragazza a un possibile flirt, oltretutto saltando la parte dell'approccio.
Sì lo so, molto banale e superficiale come visione, ma l'ho premesso: tra le altre caratteristiche che mi definiscono rientra appunto anche quella di essere una persona di sesso maschile.
In realtà mi feci forza contro la mia iniziale timidezza e mi sedetti di fronte ad un uomo sui 60 anni: forse il fatto di cominciare da una persona più adulta mi faceva sentire meno gi
udicato, un po' meno a disagio per cui mi accomodai e cominciai a guardarlo concentrandomi sugli occhi; inizialmente quello che provai fu vergogna; come nel caso della metro mi sentivo violato e non reggevo lo sguardo dell'altra persona, mi ricordo che mi veniva da sorridere imbarazzatissimo, avrei voluto guardare da un'altra parte o alzarmi, ma che senso avrebbe avuto scappare se ero proprio lì per quello? Piano piano poi, con l'andare del tempo mi abituai a sostenere il suo sguardo e cominciai a concentrarmi sui dettagli: il colore degli occhi, le pupille, la forma della bocca, e cercai di capire ed interpretare cosa quegli occhi volessero comunicarmi, la stessa cosa immagino stesse facendo lui con me. Col passare del tempo la vergogna si trasformò in normalità ed interesse e dopo cinque minuti mi alzai salutando per sedermi vicino ad una ragazza accanto. Cambiai compagni per circa un'ora e mezza, alternando il tutto con pause dove io facevo parte del gruppo 2 prima menzionato, ovvero quelli soli che aspettavano che qualcuno occupasse il cuscino davanti a loro.
Quando poi uscii dallo studio, ero contento; dentro di me sentivo di aver fatto un'esperienza significativa e profonda. Nelle due ore precedenti mi ero sentito più "umano" e libero, due caratteristiche che la velocità del mondo odierno non ci consente di avere così spesso.
"Ecco, questa è la riflessione che mi è venuta mentre ero seduto in un café dove non hanno il WIFI, solo perché ho scelto un tavolo piuttosto che un altro. Mentre rifletto sul fatto di aver riflettuto, una ragazza mi riporta alla realtà e, sorridendo, mi chiede se il posto accanto a me sia libero. Le rispondo di sì, sorridendo anch'io, e poco dopo lei e il suo fidanzato si accomodano sul divanetto accanto a me e occupano il tavolino vicino. Io finisco il mio cappuccino, mi alzo ed esco, contento di aver parlato con una persona, anche avendo scambiato una semplice battuta di circostanza, e rimango con la domanda iniziale:
"Perché ci isoliamo?"
Ci si becca il 30 febbraio...
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